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LA MEMORIA
GIORNATA DELLA MEMORIA

Non esistono le razze. Esistono i razzisti.
(Rita Levi Montalcini)
IL VIAGGIO
 
di Liliana Segre

Negli ultimi giorni di gennaio il quinto raggio del carcere di  San Vittore si era riempito di ebrei che arrivavano da tutta Italia;  eravamo circa settecento.
[…] A un certo punto, credo nel pomeriggio, entrò nel raggio un  tedesco che lesse i nomi di quelli che sarebbero partiti il giorno dopo  per ignota destinazione.
Erano circa 600 nomi, non finiva più. […]
Noi tutti ci preparammo a partire; ci furono distribuiti dei cestini di carta con sette porzioni di gallette, sette di mortadella, sette di latte condensato. Perché sette?
Perché sette? Come facevo a guardare mio Papà? Come facevo a chiedergli la ragione di quello che ci stava accadendo?
In quelle ultime ore a San Vittore tacevo; ma ogni tanto mi  allontanavo da Lui, correvo come una pazza su su fino alle grandi celle  comuni dell’ultimo piano per vedere tutta quella gente sconosciuta che  si preparava a partire, con gesti uguali. Era la deportazione  annunciata, ne facevo parte anch’io, la principessa del mio Papà.
La mattina dopo, il 30 gennaio 1944, una lunga fila silenziosa e dolente uscì dal quinto raggio per arrivare al cortile del carcere.
Attraversammo un altro raggio di detenuti comuni. Essi si sporgevano  dai ballatoi e ci buttavano arance, mele, biscotti, ma, soprattutto, ci  urlavano parole di incoraggiamento, di solidarietà e di benedizione! Furono straordinari; furono uomini che, vedendo altri  uomini andare al macello solo per la colpa di essere nati da un grembo e  non da un altro, ne avevano pietà.
Fu l’ultimo contatto con esseri umani. Poi caricati violentemente su  camion, traversammo la città deserta e, all’incrocio di via Carducci,  vidi la mia casa di corso Magenta 55 sfuggire alla mia vista dall’angolo  del telone: mai più. Mai più.
Arrivati alla Stazione Centrale, la fila dei camion infilò i sotterranei  enormi passando dal sottopassaggio di via Ferrante Aporti; fummo  sbarcati proprio davanti ai binari di manovra che sono ancora oggi nel  ventre dell’edificio.
Il passaggio fu velocissimo.
SS e repubblichini non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate, ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena un vagone era pieno, veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza.
Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese  conto della realtà. Tutto si era svolto nel buio del sotterraneo della stazione, illuminato da fari potenti nei punti strategici; fra grida, latrati, fischi e violenze terrorizzanti.

Nel vagone era buio, c’era un po’ di paglia per terra e un secchio per i  nostri bisogni. Il treno si mosse e sembrò puntare verso sud. Andava  molto piano, fermandosi per ore.
Dalle grate vedevamo la campagna emiliana nelle brume dell’inverno e  stazioni deserte dai nomi familiari. Gli adulti dimostravano un certo  sollievo visto che il treno non era diretto al confine, alla sera però  ci fu un’inversione di marcia e quella notte nessuno dormì. Tutti  piangevano, nessuno si rassegnava al fatto che stavamo andando al nord,  verso l’Austria; era un coro di singhiozzi che copriva il rumore delle ruote.
Dai vagoni piombati saliva un coro di urla, di richiami, di  implorazioni: nessuno ascoltava. Il treno ripartì. Il vagone era fetido e  freddo, odore di urina, visi grigi, gambe anchilosate;
non avevamo spazio per muoverci. I pianti si acquietavano in una disperazione assoluta.

Io non avevo né fame, né sete. Mi prese una specie di inedia  allucinata come quando si ha la febbre alta; quando riuscivo a  riflettere pensavo che forse, senza di me, Papà avrebbe potuto scappare  da San Vittore, saltare quel muro come aveva proposto un altro  internato, Peppino Levi, o forse no. Mi stringevo a Lui, che era  distrutto, pallido, gli occhi cerchiati di rosso di chi non dorme da  giorni. Mi esortava a mangiare qualcosa, aveva ancora per me una scaglia  di cioccolato; la mettevo in bocca per fargli piacere, ma non riuscivo a  inghiottire nulla.
Nel centro del vagone si formò un gruppo di preghiera: alcuni uomini  pii, fra i quali ricordo il signor Silvera, si dondolarono a lungo  recitando i Salmi; mi sembrava che non finissero mai: erano i più  fortunati. Le ore passavano, così le notti e i giorni, in un’abulia  totale: era difficile calcolare il tempo. Pochissimi avevano ancora un  orologio e anche quei pochi privilegiati non lo guardavano più. Ogni  tanto vedevo qualcuno alzarsi a fatica per cercare di capire dove  fossimo, guardando dalle grate, schermate con stracci per riparare dal  gelo quel carico umano. Si vedeva un paesaggio immerso nella neve, si  vedevano casette civettuole, camini fumanti, campanili…
Prima che cominciasse la Foresta Nera, il treno si fermò e qualcuno  poté scendere tra le SS armate fino ai denti, per prendere un po’  d’acqua e vuotare il secchio immondo.
Anch’io e il mio Papà scendemmo e vedemmo per la prima volta, scritto con il gesso sul vagone: “Auschwitz bei Katowice”.  Capimmo che quella era la nostra meta. Il treno ripartì quasi subito e  la notizia della nostra destinazione gettò tutti in una muta  disperazione. Fu silenzio in quel vagone in quegli ultimi giorni.  Nessuno più piangeva, né si lamentava. Ognuno taceva con la dignità e la  consapevolezza degli ultimi momenti. Eravamo alla vigilia della morte  per la maggior parte di noi. Non c’era più niente da dire. Ci  stringevamo ai nostri cari e trasmettevamo il nostro amore come un ultimo saluto.

Era il silenzio essenziale dei momenti decisivi della vita di ognuno.
Poi, poi, all’arrivo fu Auschwitz e il rumore assordante e osceno degli assassini intorno a noi...
 
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